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il Dizionario del Nonno

 Alfonso Artone recensisce  “il Dizionario del Nonno” del Comm. Dott.  Marcello Rosario Caliman 

Mentre leggevo “il Dizionario del Nonno” non ho potuto fare a meno di intravedere le dita dell’ autore, lo scrittore, diacono e giornalista Marcello Caliman,  pigiare velocemente i tasti del suo pc, mentre i ricordi di una vita gli scorrevano idealmente davanti, come proiettati in un vecchio cinema.  Non ho potuto evitare di interpretare ogni singola frase di quest’opera, avendo in mente Marcello, un uomo che ha sicuramente influenzato la mia vita, come quella di tantissimi altri nel nostro territorio. Famiglia , amici, amore,cultura e  tradizioni, Fede, rispetto e legalità: questo libro parla soprattutto di questi valori, costanti punti di riferimento dell’autore. Mi legano a lui tantissimi ricordi e in questo contesto vorrei condividere quelli che ho in comune con una intera cittadina, o in molti casi addirittura con l’intero golfo di Gaeta: chi di voi è di Scauri e ha passato come me i trent’anni, non può non ricordare con un sorriso le passeggiate ecologiche in bicicletta, le escursioni, le cacce al tesoro, le recite al palazzetto dello sport o all’ex cinema “New York”…tutto un paese aspettava che Marcello, con Italia Nostra, organizzasse qualcosa perché altrimenti a Scauri “non c’era niente da fare”. Naturalmente sono rimasti impressi nella mia mente soprattutto gli eventi in cui mi sentivo maggiormente coinvolto da bambino, quelli forse con una maggiore componente “ludica” appunto: ma anche i miei genitori ed i loro amici adulti, accoglievano sempre con piacere quanto venisse organizzato da lui o dalla sua Associazione. All’epoca ancora non immaginavo che questa figura carismatica avrebbe influenzato alcune mie scelte di vita molto importanti: devo anche a lui in particolare il mio impegno in parrocchia e la voglia di organizzare sempre qualcosa per gli adolescenti che altrimenti non saprebbero cosa fare in un Comune che non offre loro nulla che non sia legato all’iniziativa di privati volenterosi. Le pagine di questo libro quindi descrivono una persona che – nonostante la sua vita decisamente“movimentata” e gli inevitabili errori che egli stesso si rimprovera – ha sempre cercato di spostare il baricentro del suo operato verso avanti, in favore del prossimo: la famiglia, gli amici, ma anche la sua città e la sua terra. Chi Leggerà  il “dizionario del Nonno” scoprirà un Marcello Caliman padre, figlio e marito, prim’ancora che nonno. Un uomo a tutto tondo che – spinto dal desiderio di lasciare il suo testamento  morale al nipote Koen – ha regalato un libro stupendo a tutti noi.  Testimonianza di una vita spesa cercando  di moltiplicare il tempo a propria disposizione in favore del prossimo.

Alcuni temi trasversali percorrono queste pagine e ne rappresentano l’anima: il primo e forse il più importante di questi  è costituito dal binomio “tempo e amore”.  Senza tempo non si riesce ad esplicitare l’amore,  e il tempo per Marcello rappresenta senz’altro il dono dell’Amore divino. Vorrei a tal proposito condividere con voi due frasi entrambe situate a pag. 26, a poche righe di distanza l’una dall’altra. La prima: “come non posso amare il primo essere umano che mi abbia offerto un fiore in vita mia…”.  E poi: “ho imparato con il passare dei giorni che il tempo è un dono dei Signore e va speso bene”. E’ stato dunque sufficiente un attimo , un solo istante, per racchiudere tutto il significato di un sentimento così grande, l’ Amore, che quindi per l’autore è innanzitutto purezza, spontaneità  e semplicità di gesti e di sentimenti.  Ma è la seconda  frase che forse meglio di tutte le altre ci fornisce la chiave di lettura dell’intera opera, nonché la strada maestra che Marcello ha voluto seguire in tutte le scelte di vita: la qualità dell’amore da sola non basta, serve anche la quantità. Chi ama veramente vuole avere tempo da spendere e da dedicare ai’propri cari; e infatti l’autore reclama soprattutto tempo per i suoi nipoti, quelli che riesce a vedere solo di rado ma anche quelli che ha la fortuna di frequentare più spesso.

Nella Bibbia, punto di riferimento di tutta la comunità Cristiana oltre che di Marcello naturalmente, tempo è soprattutto dono di Amore divino: la Creazione infatti, così come ci viene descritta dalle Sacre Scritture coincide con l’inizio del tempo e il dono della vita è Lì inteso come dono di tempo da spendere e da utilizzare per amare il prossimo. Il principio dell’Universo d’altronde anche dal punto di vista scientifico – secondo la  teoria del “big bang” – è l’ istante iniziale prima del quale non esistevano né spazio né tempo;  sono i sentimenti (l’Amore in primis) che caratterizzano e costituiscono l’humus della specie umana. Ritengo dunque che il modo in  cui Caliman vive il Tempo, intriso dell’Amore di Dio, nelle sue varie forme, sia al più bella testimonianza della sua fede cristiana; ad esempio a pag. 30, l’autore ricorda  l’ultimo bacio dato alla nonna sul letto di morte; e a pag. 42 egli chiede scusa ai figli per non aver sfruttato i primi 36 mesi della loro vita – periodo importantissimo per il loro sviluppo – perché troppo preso dalle contingenze lavorative. Marcello reclama  maggior tempo per poter decidere, da sfruttare  o per rimediare a quanto non è riuscito, a suo dire, a fare in passato. In poche parole, desidera con tutto se stesso più tempo per poter amare. L’amore coniugale per Gigliola poi, è una favola legata addirittura ad un solo istante, che l’autore ha saputo cogliere abilmente ; un’occasione sfruttata forse anche cinicamente, ma che lo ha legato a lei per sempre. Amore però per Marcello non può prescindere anche dal contatto fisico, che ricerca insistentemente con tutti i suoi cari: i suoi abbracci, le sue carezze, i suoi teneri  baci al nipote, a mio parere denotano ancor più l’autenticità e la purezza del suo sentimento. Voler bene o meglio amare il prossimo infatti vuol dire forse soprattutto rassicurare: un bambino cerca la mano del genitore, una  persona disperata cerca l’abbraccio dell’amico fidato. Anche l’Amore Biblico di Dio verso l’Uomo d’altronde ha una forte componente “consolatoria”: basti pensare al fatto che nelle Sacre Scritture la frase“non avere paura” in varie forme compare ben 365 volte, tante quanti sono i giorni dell’anno.

Il secondo importante valore ampiamente presente in queste pagine è la  famiglia. A tal proposito,  grande rilievo l’autore  riconosce al concetto di “Gens”, ovvero  tutte le persone con le quali egli ha in comune  buona parte del DNA. “Quando ero ragazzo guardavo con orgoglio alle mie supposte radici storiche” ricorda ad esempio a pag 93 come in tanti altri punti.  Questo tema già oggi normalmente viene catalogato come “obsoleto”, anacronistico:  perché allora Marcello ci ritorna con insistenza in vari punti di questo libro, che suo nipote leggerà con tutta probabilità tra quindici o vent’anni almeno?  Troviamo la risposta a ciò a pagina 138 dove l’autore descrive il suo rammarico nel momento in cui per le vie di Scauri  vede persone – che si definiscono “lontani parenti”- trattarsi freddamente fino al punto di non salutarsi neppure. Per Marcello infatti il  tempo – ancora lui – non dovrebbe spezzare l’amore coniugale che ha generato la vita, anche se molti anni prima. Questo concetto “biologico” di gens non gli impedisce tuttavia di ribadire più volte  il profondo affetto che lo lega alla nuora (si vedano le  “spaghettate” a pag 79) e a suo suocero che considera un secondo padre. Richiesta di tempo dunque, anche quando esprime il suo rammarico per il  figlio Giuliano rimasto a lungo lontano  perché impegnato con l’arma dei Carabinieri. Ricordando quando quest’ultimo poco più che adolescente al momento di arruolarsi stava per cambiare idea  (pag. 79) afferma:  “devo essere sincero: il tempo ha cambiato anche chi scrive e con la sensibilità di oggi –più fragile di una volta-dinanzi alle sue resistenze girerei l’auto e me lo riporterei a casa”.

Non si può dunque comprendere a fondo il “Dizionario del Nonno” prescindendo dalla fede dell’autore che è , come egli stesso afferma non bigotta e non mediata, e trova una sintesi nel  bellissimo Padre Nostro YHWH a pag 175.  “Non so pregare Te tramite i Santi”  dice il Caliman in questa bella poesia, e poi a pag. 193 ribadisce : “non favorirei mai una fede bigotta o contaminata da comportamenti superstiziosi”.  Fede dunque autentica, che desidera fortemente trasmettere all’amato nipote (pag.194) : “Koen deve imparare crescendo a distinguere tra una fede adulta e coerente con i Vangeli e le tante incrostazioni di usanze, credenze e consuetudini che abbiamo creato noi uomini”. Valori, comportamenti e stile  di vita che un genitore ed un nonno può e deve insegnare principalmente con l’esempio: Il bambino che è amato saprà amare ed il Cristianesimo (pag. 197) è proprio la religione dell’Amore.  Da qui, il tema della scuola e dell’insegnamento, molto cari a Caliman non solo per la professione della moglie: “la prima formazione per un essere umano non è l’istituto scolastico, non sono i docenti, anche se i migliori di questo mondo, ma è l’ambiente in cui vive” (pag 145) ed il suo esempio di vita diaconale e di impegno civile, sono sicuramente la miglior scuola che Koen possa desiderare in un percorso di vita e di fede autentica.  Mi ha colpito molto a tal proposito l’immagine del suo piccolo nipote che (pag. 194) , mentre gioca in piazza Rotelli a Scauri, entra nella Chiesa di S. Albina (la parrocchia che io frequento), fa il segno della Croce, e va dritto a baciare il tabernacolo tra le braccia del nonno. Gesti non imposti, ma acquisiti per osmosi dalle persone che lo circondano. Sicuramente suo nipote crescerà avendo ben chiaro un altro fondamentale valore, il rispetto ela legalità, ribadito con forza a pag. 91 ove viene auspicata una “Italia al di sopra dei politici corrotti” e un popolo il cui sentimento nazionale non si limiti ad un inno cantato malvolentieri dai giocatori strapagati della nazionale. Senso della legalità estremo appunto, che lo spinse ad esempio, nonostante l’infortunio al ginocchio subito quando aveva solo quindici anni (pag. 98) ad espletare ugualmente il servizio di leva (pag. 103) nel quale si distinse in particolare per essersi opposto caparbiamente ad episodi di nonnismo (pag. 105) subiti da lui oltre che da tantissime altre reclute. Rispetto è anche del territorio e dell’ambiente in cui si vive: fa riflettere la lettera contenuta a pag. 84, scritta dal capo pellirossa Sealth al Presidente degli Stati Uniti nel 1854 , nella quale vengono ribaditi concetti sorprendentemente “attuali” ma all’epoca poco trattati che riguardano oltre l’ambiente anche e soprattutto la mercificazione spinta del mondo occidentale:  “noi non siamo proprietari della purezza dell’aria e della freschezza dell’acqua..come potete comprarle da noi?”

E’ un libro profondo e coinvolgente, che trabocca della personalità e dell’umanità dell’autore: un uomo in grado di operare, come si suol dire oggi “in multitasking estremo”  desideroso di trasformare ogni singolo istante di tempo a propria disposizione in amore per il prossimo. Mi piace concludere quindi con l’immagine di Marcello che (pag. 118) rallenta questo  ritmo frenetico che ha caratterizzato tutta la sua vita, per costruire castelli di sabbia in riva al mare con l’amato nipote Koen. Mare a cui affida  le toccanti poesie dedicate ai nipoti (pag. 169): messaggi affidati al tempo, e che vogliono restare immuni ad esso.

 

Alfonso Artone

 

La mia esperienza nelle zone terremotate

Una serie disordinata di appunti, sulla mia esperienza all’AQUILA con l’ANCI.

Lo scorso 14 Aprile lessi una email, a firma del Direttore operativo ANCI, in cui venivamo informati che la nostra associazione era impegnata sin dalle primissime ore successive al terremoto a fare tutto quanto possibile per assistere i Sindaci dei Comuni colpiti da questo tragico evento. L’emergenza era enorme e il lavoro da fare tantissimo: Era dunque stato deciso di garantire una presenza stabile dell’ANCI nazionale a L’Aquila, a supporto dell’ANCI Abruzzo e dei Comuni colpiti: a tal fine si chiedeva chi fosse disponibile a recarsi in Abruzzo in missione, in quanto sarebbe stato presto attivato un presidio stabile con apposite turnazioni del personale volontario. La sistemazione era naturalmente garantita ma, viste le condizioni di emergenza si sarebbero potuti recare nelle zone colpite soltanto le persone disponibili ad adattarsi alle circostanze.

Rimasi a fissare quella email per qualche minuto: devo ammetterlo, all’inizio in modo incosciente pensai che quello che ci era richiesto, era di fare “gli eroi”. Mi vergognai subito di questo pensiero assurdo, e mi resi conto che in fondo ci si chiedeva semplicemente di sacrificare alcune nostre serata a casa e in famiglia, per metterle al servizio di quel territorio, con la sua gente, così devastato da una tragedia (forse non troppo) imprevista. Nonostante ciò ugualmente non era così semplice accettare: ci si chiedeva di recarci li, sul posto, senza sapere affatto se la terra avrebbe tremato ancora (come poi è stato, anche se senza particolari conseguenze). Chiusi quindi l’email e teleofonai subito a mia moglie per chiederle cosa ne pensava, per condividere la scelta: anche per lei sarebbe stata dura, – pensai – dato che con due bimbi di 2 anni la prima, e di tre mesi il secondo, la sera senza il mio piccolo ma fondamentale aiuto sarebbe stata dura.

Come sempre, nelle situazioni difficili, ci ritrovammo completamente d’accordo. Partii quindi, era il 27 Aprile, direzione Coppito, dove, presso la scuola sottufficiali della Guardia di Finanza, è ospitata la Direzione di Comando e Controllo (DI.COMA.C.) che rappresenta l’organo di coordinamento delle strutture di Protezione Civile a livello nazionale in loco, attivato dal Dipartimento della Protezione Civile. in seguito alla Dichiarazione dello Stato di Emergenza.

Arrivato all’Aquila Est, ad una prima occhiata superficiale tutto sembrava normale: niente palazzi crollati, macerie, o strade dissestate così come mi sarei aspettato; ma i segni della tragedia, dopo uno sguardo più attento, erano visibili: la periferia della città (non il centro storico dove ci sono stati i maggiori danni, per intenderci) era svuotata dalle persone comuni, e riempita dalle forze di protezione civile, croce rossa e dai volontari vari. Le perisane delle abitazioni erano tutte serrate, le avvolgibili abbassate. Palazzi apparentemente intatti,tuttavia erano deserti. Una parvenza di normalità la forniva solo un enorme ipermercato, con l’insegna illuminata dall’aspetto rassicurante. Guardando attentamente però, si scorgeva invece un accampamento di tende posizionato nell’ampio parcheggio, destinato ad ospitare le autovetture dei clienti. Fu in quell’attimo che capii tutto: quella città era stata violentata nella sua anima più profonda, ma la gente non si era rassegnata ed era li, per combattere, per ricostruire, per non arrendersi. Passai nei pressi dell’ospedale che sapevo essere pericolante, e rabbrividii.

La sede del DI.COMA.C brulicava di persone. Dovevo recarmi nella grande palestra della scuola di sottufficiali: era stracolma di sedie e tavoli con decine o forse centinaia di persone della protezione civile, degli enti locali, delle forze di polizia e militari, che viste dall’alto dell’ingresso principale, sembravano tante formichine operose ed instancabili: qualità che – scoprii subito – effettivamente avevano. Mi venne incontro la mia collega a cui dovevo dare il cambio, che normalmente si occupa di affari esteri: appariva stremata, e mi accolse come il Salvatore sceso in terra. Iniziai davvero a preoccuparmi. Dovevo fare un lavoro completamente diverso da quello che avevo sempre fatto, e in più dovevo essere super efficiente. Mi spiegò infatti che il nostro compito era (ed è ancora) di supportare in vario modo i comuni colpiti dal terremoto. Innanzitutto, dovevamo organizzare le squadre di tecnici comunali il cui compito era di verificare velocemente l’agibilità degli edifici. E’ chiaro che più squadre di tecnici competenti si è in grado di fornire, sistemare, ed organizzare, più presto le persone terremotate possono sperare di rientrare nelle loro abitazioni in tempi rapidi. Mi spiegò che avrei agito sotto la supervisione del nostro responsabile del settore Protezione Civile, e che avrei coordinanto una squadra di ragazzi, per lo più studenti Universitari o dottorandi. Ma Accanto a questo progetto, se ne affiancavano numerosi altri, in particolare quello della polizia municipale: in tal caso il nostro compito era di reperire agenti che volessero prestare servizio di polizia di prossimità nei vari campi, cercando a tal fine di risolvere tutte le innumerevoli pratiche burocratiche (oltre che i tanti problemi politici) in modo da consentire loro di operare nei vari “COM” (come vengono definiti i raggruppamenti di comuni terremotati). Un altro nostro compito era sempre di reperire (tramite il nostro accordo con l’Agenzia dei Segretari), istruire, e coordinare vari Segretari Comunali, venuti in soccorso amministrativo dei comuni terremotati, spesso piccolissimi, e ora sovrastati da una mole di pratiche imprevedibile ed imprevisto. E poi dovevamo rispondere alle centinaia di quesiti che ci venivano posti ogni giorno dai comuni. Mentre mi chiedevo come mai questo lavoro non avremmo potuto farlo da Roma, comodamente seduti in ufficio e senza l’incubo di trovarsi in mezzo ad un nuovo e più devastante terremoto (voce che tutt’ora circola all’Aquila), mi girai intorno e mi rensi conto che li dentro c’era un bel pezzo delle rappresentanze dello Stato e della società civile: dal comune dell’Aquila (il cui sindaco, sconvolto “sedeva” stabilmente di fronte a me), alla provincia (alle mie spalle) , alla protezione civile, ala regione, all’esercito, che si distinguevano per i maxi schermi disposti dietro le loro spalle su cui ogni 1 o 2 ore veniva annunciata una riunione di “breafing”. Capii che il motivo per cui eravamo tutti li, probabilmente era soprattutto perché stando raggruppati in un’unica sede i tempi di comunicazione divenivano più rapidi e, in casi come questi, anche qualche minuto può essere fondamentale. E poi c’erano gli innumerevoli tavoli quotidiani di coordinamento, per affrontare insieme emergenze o problematiche nuove, imprevedibili o sottovalutate fino a poco prima.. Stare a Roma, quindi, sarebbe stato davvero poco efficiente, almeno in questa fase. E’ letteralmente una corsa contro il tempo: forse è solo stando li che si capisce veramente cosa intendo. Voltai lo sguardo e vidi altri maxi schermi, che mostravano i dati sulle ultime scosse, Dopo un po’ vidi arrivare il presidente dell’Anci regionale locale: un uomo distinto e sempre cordiale che però adesso appariva incredibilmente provato dal terremoto e dalla permanenza in tenda. Era abituato, mi raccontò subito, ad avere oltre venti paia di scarpe – un dettaglio apparentemente banale, forse io ne ho ancora di più, pensai – ma mi spiegò che ora ne aveva solo due, e aveva imparato ad apprezzare il fatto di potersele cambiare, a differenza di altri. Disse che prima faceva la doccia tutti i giorni, senza rendersi conto della fortuna che aveva: peccato che si debba imparare dalle tragedie, sospirai con un velo di tristezza. Di tanto in tanto, quando poteva si recava sotto la vecchia sede dell’ANCI Abruzzo oramai malconcia e, non si sa come, dopo un po’ ritornava al DI.COMA.C ,trionfante, con un carico di cancelleria utile per la nostra attività.

Mi misi subito al lavoro, indossai la maglia ANCI –Protezione Civile, e mi resi conto che tempo di apprendere, proprio non ne avevo. Ero già stato catapultato nell’emergenza: i telefoni squillavano, i ragazzi tirocinanti mi facevano domande a cui non sapevo rispondere, il resposabile mi dava mansioni dando tante cose per scontate. Da Roma mi arrivavano richieste dai colleghi sull’entità dei danni per cercare probabilmente di recuperare fondi extra, e mille altre cose. Tutte insieme, tutte subito. Sembrerà strano ma in questo caso, più che la attuale esperienza lavorativa, almeno a livello di stress mi è tornata utile quella dei campi scuola con i ragazzi dell’ACR. Anche se le motivazioni sono diverse, anche in quei casi non ho mai il tempo di fermarmi, di riflettere, di riposarmi. Anche lì capitano quaranta cose tutte insieme e devi risolverle senza avere il tempo pensare. E’ in quelle occasioni che ho imparato che la vera emergenza dura un istante e va risolta in quel momento, non in qualche ora.

“Le cose belle che ci accadono nella vita non ci lasciano mai soli, ci tengono per mano, e ci aiutano a risolvere le situazioni brutte” , ricordai questa frase che spesso dico ai ragazzi dell’ACR: fino ad allora però devo ammetterlo, non mi ero reso conto dell’effettivo significato pratico (aimè). Una esperienza in un caposcuola con degli adolescenti, può ritornarmi utile ad essere più efficiente in un disastro come questo… incredibile! Mi venne da sorridere.

Gli orari di lavoro erano massacranti, ma devo dire la verità, l’adrenalina che viene su quando sei in una situazione di stress ma sai che stai facendo bene è tanta, e ti consente di andare avanti. E poi con i ragazzi dell’Università si era subito creato un clima eccezionale: ci vogliono poche ora in queste situazioni per diventare amici, e devo ringraziare davvero di aver potuto lavorare con delle persone eccezionali come loro. Come Federica, Alessio, Francesco e Giuseppe. Tra i momenti che non scorderò mai, senza dubbio, c’è stata la visita del Papa. L’enorme sala brulicava di Vescovi, Cardinali e Prelati, forse addirittura… futuri Papi: approfittai di quel momento per cercare un “contatto” utile per Don Simone, il mio parroco, che da parecchio cercava di mettersi in contatto con il suo amico Arcivescovo dell’Aquila per poter iniziare al meglio e prontamente un gemellaggio. Non mi fu molto difficile, recuperare un numero di cellulare che, se non fossi stato li sul posto, non avrei mai ottenuto. Molto impegnativo invece fu raggiungere il piazzale dove Benedetto XVI avrebbe parlato: la nostra sala era esattamente alle spalle del Palco, ma per ragioni di sicurezza, io e Federica dovemmo fare letteralmente il giro di tutta l’enorme caserma. Provai a raggiungere telefonicamente la cugina di Rossella, Annalisa, anche lei di Scauri, che in quel momento probabilmente si trovava in piazza d’Armi come volontaria per la Willclown…Cellulare spento! sarà più incasinata di me – pensai – peccato, speravo di incontrarla e condividere con lei le nostre esperienze, molto diverse senz’altro, ma per volte alla stessa causa.

La gente nel piazzale in attesa del Pontefice era tanta, anche se la gran parte delle persone Lo aveva già accolto nei luoghi devastati. Ma, forse per via della tragedia, non c’era il solito entusiasmo. Il Papa passò vicinissimo a me e Federica. Affianco a noi, una bimba di nove mesi, veniva presa in braccio dal Papa: i genitori erano troppo stanchi e demotivati per palesare l’entusiasmo che gli leggevo negli occhi. Al contrario dei raggianti fotografi. Tornai dopo qualche decina di minuti alla mia postazione, c’era troppo da fare.

Non scorderò mai tutte quelle persone comuni che venivano ai nostri banchi con le richieste più disparate, che, anche se non era il nostro compito, cercavamo di risolvere, come quella signora che voleva traslocare ad Avezzano, stanca di alloggiare nella scomoda tenda con i suoi tre figli, ma non sapeva proprio come fare. Le avevano addirittura raccontato che traslocare era vietato dalla legge, in casi di emergenza nazionale. E ricorderò sempre la scossa di terremoto sussultoria, l’unica che ho avvertito, forte, durante la riunione con il coordinatore della Funzione enti Locali, rimasto impassibile – come i militari nei films Americani – mentre molti gridavano e qualcuno si metteva addirittura sotto i banchi. Solo che la sua non era una finzione come in quei film, era effettivamente, abituato a sentire scosse ed era istruito a restare calmo. Personalmente, essendo la stata la mia prima esperienza di terremoto, mi spaventarono più le grida che i banchi che avevano tremato.

Ho tremila altri ricordi, per questi pochi giorni ma intensi, in cui avevo pensato di andare in giro per le tendopoli, e invece mi sono ritrovato in un quartier generale, in cui avevo pensato (o temuto) di fare l’eroe, e invece mi sono ritrovato a fare la formichina operosa, proprio come le mille che avevo scrutato dall’alto appena mi ero recato li. Non posso davvero raccontarveli tutti, i miei ricordi: non potrei però concludere senza dire che il nostro team, ANCI e volontari della facoltà della Protezione Civile a noi affidati, stava e sta lavorando benissimo.

Decine di squadre di tecnici stavano e stanno lavorando instancabilmente; molti vigili stanno andando, tenda per tenda, a rassicurare e risolvere i problemi delle persone, i segretari vanno in soccorso delle amministrazioni sconvolte. Per non parlare dei tutta l’attività politica volta a far si che dalle parole (spesso aimè insensate, inutili ed inefficaci) di decreti e provvedimenti scritti male e di corsa, esca fuori qualcosa di utile e di concreto, che supporti veramente ci comuni colpiti, e quindi la gente.

Una cosa è certa…ci tornerò. Ci tornerò prestissimo.

Alfonso Artone

[URL=http://www.artone.info]www.artone.info[/URL]

Qual è il vostro sogno?

Ieri durante una riunione di lavoro mi hanno chiesto:

“qual è il tuo sogno?”

Istintivamente volevo  rispondere subito:

”comprarmi lo scooter nuovo!!”

Poi ho riflettuto e mi sono detto: fammi chiedere qualcosa di più, ne approfitto…ecco:

“vorrei un buon lavoro vicino casa!”

Stavo per pronunciare queste parole quando un rimorso di coscienza mi ha fatto pensare:

“Ecco la salute! Per me e la mia famiglia! Questo è il mio vero sogno!!!”

“ma non è una  cosa davvero egoistica?” mi  sono sentito dire da una vocina dentro di me..

Beh allora, se è per questo…ho la soluzione: “la fame e la pace nel mondo!!! adesso si che ho un sogno altruista!!!”

 

No, non sono riuscito a dire nemmeno questo. Non che non desiderassi le cose a cui avevo pensato…anzi! Ma mi era impossibile fare una scelta.

Mi sono sentito depresso ed avvilito.

Una semplice domanda era riuscita a gettarmi nello sconforto totale.

“Se non so qual è il mio sogno..che razza di persona sono io??”

 

Un mio caro amico, che partecipava alla riunione con me, vedendo la mia espressione sconsolata dopo avermi appoggiato la mano sulla spalla, mi ha sussurrato nell’orecchio:

“caro Alph, i sogni sono come gli amici: non ne puoi scegliere uno migliore e buttare via gli altri. Sono tutti importanti.. ciascuno a suo modo”

E voi cosa ne pensate?

 

Alfonso Artone per il gruppo acr nel 2009