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Plinio Perilli: Romanzare il Genoma

Romanzare il Genoma, castello d’angeli orfani di Luce,

oscuro soffitto senza stelle…

 

E anche una ricerca scientifica che degradi l’embrione a strumento di laboratorio non è degna dell’uomo. La ricerca scientifica in campo genetico va bensì incoraggiata e promossa, ma, come ogni altra attività umana, non può mai essere esente da imperativi morali; essa può del resto svilupparsi con promettenti prospettive di successo nel campo delle cellule staminali adulte.

(Karol Woytyła)

 

Nel suo vivace, serrato studio sulla Nuova Filosofia della Scienza, Hans Reichenbach – empirista logico tra maggiori e più rigorosi del Novecento – sciorina un ininterrotto attacco alla filosofia accademica e a ogni pretesa autonomia della filosofia; in nome invece di una duttile e circostanziata enunciazione del bisogno di adeguarsi via via sia ai nuovi problemi che alle rispettive soluzioni, specialmente scientifiche: «Oggi piuttosto si deve riconoscere come fondamentale nella scienza e nella epistemologia l’autonomia dei problemi. È sempre accaduto che una spregiudicata analisi di problemi, condotta da un punto di vista sia filosofico che matematico, o fisico, fornisce gli stessi risultati. I problemi rompono i rigidi schemi di ogni sistema, e impongono le loro leggi particolari, indipendenti dalle visioni tradizionali».

Priorità dunque ai signori Problemi, gli unici capaci di guidarci nella inesorabile complessità del vivere, e tanto più del viverci, del viversi e viverli in piena, contraddittoria modernità: «Per noi, invece, questa tendenza verso la specializzazione sembra annunciare un processo di riscoperta della filosofia. Il processo di differenziazione costituisce una transizione dal metodo intuitivo a quello scientifico, da una speculazione isolata, alla cooperazione scientifica. La filosofia, da assonnata visione del mondo, diventa una scienza progressiva».

Perché questo brioso e aggrovigliato romanzo di Alfonso Artone mi ha ricordato l’epistème di Reichenbach e le sue illuminate teorizzazioni di una moderna Filosofia della Natura? Perché anche il suo libro – ripetiamo, amabilissimo per respiro e verve narrativi – intriga e dipana tutto, o comunque gran parte del carico dei Problemi che l’esimia Contemporaneità c’infligge e ci assegna… Sì che davvero quella sala conferenze con cui il romanzo apre il suo terzo capitolo sembra insieme il colpo d’occhio gnostico e tecnologico sullo scenario in scala dell’intero nostro malversato pianeta… E in questa sala – quasi messa laica, assise tecnocratica in tregua, o meglio vacanza e dubbio d’etica – il dottor James Grahm, distilla, proclama la sua vigorosa arringa ai suoi colleghi scienziati, ma in fondo all’intera coscienza universale!…

Policlinico di Renge… Settore Uno… posto nei sotterranei… Dipartimento di Ricerca Biologica – responsabile Dott. James Grahm, citava l’etichetta posta sull’ampio portone vetrato che dava l’accesso proprio all’area dove la telecamera aveva inquadrato la figura sospetta. La porta era spalancata, il buio quasi completo; ma la guardia decise di non accendere la torcia, accorgendosi che da una stanza proveniva un bagliore fioco simile a quello generato da una candela, ma con un’intensità di luce decisamente più costante. Decise di avvicinarsi con cautela verso quella direzione: era lo studio del dottor Grahm. Spostò con prudenza, con la mano sinistra, la porta semi-chiusa, mentre la destra teneva saldamente impugnata la pistola appena estratta dal fodero.

Alfonso Artone è molto bravo a prendere questo grande scenario da emergenza planetaria, da teatro globale, e animarlo di personaggi precisi, di volta in volta aulici o leziosi, freddi, cinici o benefattori, loschi o antroposofici… Quando ha sistemato tutte le sue belle pedine, la partita a scacchi – il suo busillis – può iniziare, con squarci, bagliori e implicazioni di grande e immediato sapore romanzesco:

“È il tuo momento, James…” si ripeté, mentre afferrava il microfono.

«Buonasera a voi tutti, Autorità e illustri colleghi, signore e signori» esordì sorprendendo se stesso per l’inattesa compostezza della sua voce «come sapete, da circa sette anni è stata applicata efficacemente, sull’uomo, una tecnica di fecondazione che trae le sue origini negli anni Quaranta: mi riferisco alla cosiddetta fivet. Essa nacque inizialmente con l’intenzione di by-passare l’ostruzione tubarica bilaterale, ma già oggi essa viene utilizzata da svariate coppie, che sono infertili anche a causa di altri fattori.

Da sempre, del resto, il Romanzo moderno ha bisogno, guarda alla Scienza come a una sua ideale partner ispirativoemotiva… E non stiamo parlando solo del romanzo “d’anticipazione”, che scivola più o meno felicemente nella Science Fiction, ma propriamente dei grandi narratori del Novecento che, ad esempio, hanno davvero messo la Scienza e i suoi fascinosi abissi d’Inconoscibile al centro della propria investigazione. Penso a Il mondo nuovo di Aldous Huxley (1932), il cui protagonista, Bernard Marx, dapprima impressionato e sedotto dall’Utopia avverata, ne è infine disgustato fino alla ribellione… il nonno di Huxley, guarda caso, era un famoso biologo… ecco forse perché nella fantasia romanzesca del nipote conta molto immaginare la stabilità del sistema assicurata da un rigoroso controllo del numero e dei tipi di cittadini, tutti – si badi bene – nati in provetta… e uno snodo essenziale è l’incontro di Bernard con John, un “diverso” nato da grembo di donna…

Più di recente, l’immaginario rapito e rapinoso di queste ricerche (o manipolazioni?) genetiche, è stato spesso incarnato dalle opere di William Gibson, leader e guru indiscusso del movimento cyber-punk. Ecco un forte passaggio di Giù nel cyberspazio (Count Zero, 1986):

«Si chiese cosa stesse facendo Mitchell, cosa provasse. I laboratori della Maas North America erano scavati nel cuore di una mesa, un tavolato di roccia che si sollevava dalla superficie del deserto. Il dossier biosoft aveva mostrato a Turner la faccia della mesa, punteggiata da finestre illuminate, di sera; galleggiava sulle braccia sollevate di un mare di cactus come il castello di poppa di una nave gigantesca. Per Mitchell era stata una prigione e una fortezza, la sua casa per nove anni. Nelle sue viscere, aveva perfezionato le tecniche di ibridomazione che avevano eluso altri ricercatori per quasi un secolo. Utilizzando cellule cancerogene umane e un modello di dna-sintesi trascurato e quasi dimenticato, aveva prodotto le immortali cellule ibride che erano gli strumenti produttivi di base della nuova tecnologia, minuscole Fabbriche biochimiche che riproducevano senza fine le molecole artificiali utilizzate nei biochip. Da qualche parte, nell’arcologia della Maas, Mitchell trascorreva le sue ultime ore come loro ricercatore prodigio».

Lo scenario e gli stessi protagonisti di Artone sono ben diversi, con la sua America compita, un po’ ingessata, standardizzata elegante ma vagamente immota, asettica, arcigna e quasi anaffettiva… Ma i problemi sul tappeto sono gli stessi, e analoghi i tòpoi narrativi; è dai tempi di Jacques Monod (Premio Nobel 1965 con Jacob e Lwoff), e della sua proposta di un meccanismo, poi confermato, di regolazione genetica della sintesi proteica, che questo versante aureo e inesplorato, immateriale ma roccioso, ostico e divino, ci romanza dentro come un thrilling assoluto…

C’è forse un evento scientifico – cognitivo, gnomico! – più del Genoma, cioè della medesima mappatura dell’Uomo (Human Genome Project), che sia stato recentemente capace di rapirci, stupirci in modo così travolgente e inopinato, con un gesto e un rito intellettuale più biblico, assoluto, vorremmo dire michelangiolesco? Vera rivissuta e incarnata vòlta della Cappella Sistina, Giudizio Universale del nostro povero inconscio Immaginario…

Da quando poi nel 2001 il consorzio pubblico e la società privata Celera Genomics (coordinati dal genetista Francis Collins) hanno annunciato di aver completato la sequenza del dna umano, e pubblicato i loro risultati sulle riviste specialistiche “Nature” e “Science”, ogni fantasia o ipotesi romanzesca è saltata come un corto circuito contemporaneo in Cielo e sull’Olimpo, tra Dio e gli Dèi, la nostra Terra incarnata, radicata, sequenziata d’Uomo, e ogni sacrosanto o spiritato fulgore d’Etere, senza tempo o meglio fuori del tempo…

«L’intemporale non è occultato dal temporale» annota e catechizza Henri Michaux “più di quanto il temporale non sia occultato dall’intemporale. Tutto ciò è nelle tue mani, l’uno come l’altro».

Ecco, davvero gli embrioni riescono a essere, insieme, temporali e intemporali… Il nuovo e forse unico confine – barriera etica – tra non-vita e vita (qui non si parla più di Morte, il concetto sembra perfino superato!)… «Può essere che le verità ancora da scoprire stiano tendendo un agguato all’uomo» – ammonisce un pensatore duttile e insieme integerrimo quale George Steiner (cfr. Nel castello di Barbablu, 1971) – «che il legame tra pensiero speculativo e sopravvivenza, su cui è fondata tutta la nostra cultura, s’infranga. L’accento è posto su tutta la ‘nostra’ cultura perché, come ci ricordano gli antropologi, numerose società primitive preferiscono la stasi o una circolarità mitologica al movimento in avanti, e continuano a ruotare intorno a verità fissate da tempo immemorabile».

Ma continuiamo a seguire il gran discorso del dottor James Grahm, orgoglioso di celebrare insieme l’inarrestabile, eterno progresso della scienza – e il successo personale delle proprie annose ricerche:

La prima domanda che ci siamo posti è stata quindi la seguente: cosa accadrebbe se congelassimo gli embrioni prodotti la prima volta, per poi utilizzarli su richiesta della coppia in un secondo momento? È per questa ragione che circa due anni or sono abbiamo brevettato quella che viene definita “crio-conservazione”: si tratta di un metodo che consente appunto di conservare a basse, bassissime temperature non solo gli spermatozoi ma anche gli stessi embrioni, e che è stato da noi sperimentato in questi due anni con risultati sorprendenti.

Il problema dei problemi, naturalmente, è un altro, ed esula dal campo strettamente scientifico per debordare, frangere e infrangersi contro quello dell’Etica… Una vera e propria,segreta guerra degli embrioni – è cronaca degli ultimi anni e perfino dei nostri ultimi giorni – insidia e ha insidiato melliflui governi e cattive coscienze. Dando spazio a commenti, prese di posizione, risoluzioni legali, ripulse, manifesti, conciliaboli, encicliche, anatemi, progetti di legge, sentenze giuridiche e morali – spina nel fianco insieme di ogni governo e di ogni opposizione, di ogni privato cittadino a pubblico ministro, di Dio o degli Uomini… «I crimini dell’estrema civiltà» dice Barbey d’Aurevilly «sono certamente più atroci di quelli dell’estrema barbarie». Civili all’estremo siamo… – lo cita e commenta Ceronetti in Il silenzio del cor po.

Ma il meglio deve forse ancora venire. E Alfonso Artone, proprio col suo bel romanzo, calibrato quanto ispirato, se ne fa divulgatore e messaggero, amplificatore e notomizzatore… Magari proprio nella cruda trasfigurazione dei suoi personaggi cardine – su tutti suor Mary, travagliata d’estasi, tramatrice di dolci speranze, autofustigatasi di mera realtà: Sinceramente queste parole mi commossero e, al tempo stesso, mi sconvolsero, ponendomi un difficile dilemma morale. Io ero e sono un’ostetrica, ma sono prima d’ogni altra cosa una religiosa: queste problematiche però, erano a quell’epoca nuove e soprattutto misteriose, per cui non potevo basare le mie considerazioni se non sulla mia coscienza. Poi mi convinsi che, tutto sommato, si sarebbe trattato di una inseminazione legittima e anche moralmente corretta, quella che mi prospettava Rob in memoria di suo fratello e a favore della moglie Sheila, che poi era anche la mia amatissima cugina!

Non starò a dirvi quello che ho dovuto soffrire, nell’animo. Ma mi convinsi senza più ombra di dubbio e di riserve morali o di fede, pensando che il povero Sam aveva fatto congelare il suo seme proprio per questa dannata eventualità, come aveva già detto Rob. Si trattava quindi di una sua implicita e sacrosanta volontà testamentaria!

Ritmo e visività, taglio stesso narrativo e gioco incalzante dei problemi, dedizione psicologica e sguardo d’insieme, insomma strategia epocale, irradiano interesse e suspense, incoronando queste pagine come più che degne di una gustosa riduzione cinematografica… che tenga conto dello spessore, della disperazione mentale, intimizzata ed esplosiva, plastica quanto più introiettata, di personaggi come Grahm, lo scienziato alienato di sé, e soprattutto suor Mary, supplice ed eroina di una grande vicenda, aspra, feroce deriva d’Etica (se non proprio d’amore)…

Due personaggi davvero a tutto tondo – inopinatamente kubrickiani! – che già basterebbero a nutrire di sé un gran film squartatamente contemporaneo…

 

E la poesia? Quella resta sempre nei gesti, nei pensieri, nella scia trasparente di sogni e attese – anche, sospetti e dannazioni, espiazioni…

Espiazioni prenatali… Torna in mente Kafka, lui che in fondo è sempre stato l’embrione congelato e insieme infiammato di tutto il Novecento. Quando scrisse sul suo diario, nel Ventidue: «Esitazione prima della nascita. Se esiste la metempsicosi, io non sono ancora neanche sul gradino più basso. La mia vita è l’esitazione prima della nascita».

Ma forse la metempsicosi esiste nel romanzo, e Alfonso Artone – un po’ Bernard Marx, un po’ K. o meglio, Gregor Samsa – va romanzando finalmente per il Terzo Millennio appena fecondato l’esitazione prima della nascita, la guerra di tutti gli embrioni possibili… Quanti sono? Migliaia, certo – e non li si riesce più a contare, vere bombe atomiche mignon dentro e oltre le nostre coscienze… Sul gradino più basso, redenti e irredimibili, verso l’Altissimo…

 

Forma e materia, congiunte e purette, usciro ad esser che non avia fallo, come d’arco tricordo tre saette.

E come in vetro, in ambra o in cristallo,

raggio resplende sì, che dal venire

a l’esser tutto non è intervallo,

così l’ triforme effetto del suo sire ne l’esser suo raggiò insieme tutto sanza distinzïone in essordire.

 

(Paradiso, canto xxix, 22-30)

 

Come una grande, inderogabile scia di Luce e Coscienza, questi angioletti, questi Angeli di Rock Castle, perfetta fiumana dantesca che nessun poeta riesce, riusciva oggi più a cantare, sciamano, irrompono, trasmigrano, svolano dai cieli paradisiaci alle iridescenti e umbratili balze o pareti del Limbo. Rocciose si direbbe di nuvole, colore e vapore, come gli affreschi di Tiepolo o le tele grondanti pioggia e sole di Turner… Angeli irredentisti di pace, ostie stesse e particulae di vita:

«Quegli angioletti…» prese allora a dire a bassa voce la suora, rivolta forse solo ad Avril e a Kelly «…sono forse bambini mai nati, creature a cui la vita fu negata per umani o crudeli intenti. Essi hanno rappresentato per me un messaggio di Dio, volto a custodirli e amarli e a credere – attraverso di loro – nella vita e nell’amore. In questi sei anni di solitudine essi mi hanno aiutato a non smarrire la mia strada e la mia fede. E oggi che ho ritrovato te, Avril, e un po’ anche te Kelly… io so ancor più che quegli angeli esistono, che sono messaggeri di vita e hanno i tratti e il sorriso di ogni bambino… sì, ma…» proseguì poi evidentemente commossa, e mostrando di scrutare qua e là sulla cupola «…qua però ci vuole davvero una bella pittata, altroché… a cominciare proprio da quei putti, mannaggia…».

Ebbene: se le nuove direttive ecclesiastico-teologiche hanno

deciso di abolire il Limbo, finora riservato alle anime dei bambini imbattezzati, siamo certi e già accogliamo, immaginiamo il vivacissimo e prezioso romanzo di Alfonso Artone come un Limbo ideale (mentale?) in cui ospitare tutti gli embrioni brulicanti tra Caso e Necessità (direbbe Monod!), amore e non amore…

Raggiò insieme tutto…

Il Limbo – finalmente sì! – anche e soprattutto della poesia; che qui ci presta, ci dona a chiosa il sigillo dei cari, quasi per minaccia abortiti ma infine partoriti e redenti versi di Sylvia Plath, lirico grembo di donna e poesia, sempre pregno di una dolente sublimità; messaggio d’etere e cordone ombelicale di annodate, profetanti parole vitali; difficilissimo fiore, prezioso frutto, Bambino e anch’esso certo arduo, benedetto Angelo di Rock Castle:

 

Lo zoo del nuovo

 

Di cui rimugini i nomi – Bucaneve d’aprile, pipa indiana, Piccolo

 

Stelo senza rughe,

Specchio d’acqua in cui le immagini

Dovrebbero essere maestose e classiche

 

Con questo torcersi Agitato di mani, questo Oscuro soffitto senza stelle.

 

Plinio Perilli

 

La mia esperienza nelle zone terremotate

Una serie disordinata di appunti, sulla mia esperienza all’AQUILA con l’ANCI.

Lo scorso 14 Aprile lessi una email, a firma del Direttore operativo ANCI, in cui venivamo informati che la nostra associazione era impegnata sin dalle primissime ore successive al terremoto a fare tutto quanto possibile per assistere i Sindaci dei Comuni colpiti da questo tragico evento. L’emergenza era enorme e il lavoro da fare tantissimo: Era dunque stato deciso di garantire una presenza stabile dell’ANCI nazionale a L’Aquila, a supporto dell’ANCI Abruzzo e dei Comuni colpiti: a tal fine si chiedeva chi fosse disponibile a recarsi in Abruzzo in missione, in quanto sarebbe stato presto attivato un presidio stabile con apposite turnazioni del personale volontario. La sistemazione era naturalmente garantita ma, viste le condizioni di emergenza si sarebbero potuti recare nelle zone colpite soltanto le persone disponibili ad adattarsi alle circostanze.

Rimasi a fissare quella email per qualche minuto: devo ammetterlo, all’inizio in modo incosciente pensai che quello che ci era richiesto, era di fare “gli eroi”. Mi vergognai subito di questo pensiero assurdo, e mi resi conto che in fondo ci si chiedeva semplicemente di sacrificare alcune nostre serata a casa e in famiglia, per metterle al servizio di quel territorio, con la sua gente, così devastato da una tragedia (forse non troppo) imprevista. Nonostante ciò ugualmente non era così semplice accettare: ci si chiedeva di recarci li, sul posto, senza sapere affatto se la terra avrebbe tremato ancora (come poi è stato, anche se senza particolari conseguenze). Chiusi quindi l’email e teleofonai subito a mia moglie per chiederle cosa ne pensava, per condividere la scelta: anche per lei sarebbe stata dura, – pensai – dato che con due bimbi di 2 anni la prima, e di tre mesi il secondo, la sera senza il mio piccolo ma fondamentale aiuto sarebbe stata dura.

Come sempre, nelle situazioni difficili, ci ritrovammo completamente d’accordo. Partii quindi, era il 27 Aprile, direzione Coppito, dove, presso la scuola sottufficiali della Guardia di Finanza, è ospitata la Direzione di Comando e Controllo (DI.COMA.C.) che rappresenta l’organo di coordinamento delle strutture di Protezione Civile a livello nazionale in loco, attivato dal Dipartimento della Protezione Civile. in seguito alla Dichiarazione dello Stato di Emergenza.

Arrivato all’Aquila Est, ad una prima occhiata superficiale tutto sembrava normale: niente palazzi crollati, macerie, o strade dissestate così come mi sarei aspettato; ma i segni della tragedia, dopo uno sguardo più attento, erano visibili: la periferia della città (non il centro storico dove ci sono stati i maggiori danni, per intenderci) era svuotata dalle persone comuni, e riempita dalle forze di protezione civile, croce rossa e dai volontari vari. Le perisane delle abitazioni erano tutte serrate, le avvolgibili abbassate. Palazzi apparentemente intatti,tuttavia erano deserti. Una parvenza di normalità la forniva solo un enorme ipermercato, con l’insegna illuminata dall’aspetto rassicurante. Guardando attentamente però, si scorgeva invece un accampamento di tende posizionato nell’ampio parcheggio, destinato ad ospitare le autovetture dei clienti. Fu in quell’attimo che capii tutto: quella città era stata violentata nella sua anima più profonda, ma la gente non si era rassegnata ed era li, per combattere, per ricostruire, per non arrendersi. Passai nei pressi dell’ospedale che sapevo essere pericolante, e rabbrividii.

La sede del DI.COMA.C brulicava di persone. Dovevo recarmi nella grande palestra della scuola di sottufficiali: era stracolma di sedie e tavoli con decine o forse centinaia di persone della protezione civile, degli enti locali, delle forze di polizia e militari, che viste dall’alto dell’ingresso principale, sembravano tante formichine operose ed instancabili: qualità che – scoprii subito – effettivamente avevano. Mi venne incontro la mia collega a cui dovevo dare il cambio, che normalmente si occupa di affari esteri: appariva stremata, e mi accolse come il Salvatore sceso in terra. Iniziai davvero a preoccuparmi. Dovevo fare un lavoro completamente diverso da quello che avevo sempre fatto, e in più dovevo essere super efficiente. Mi spiegò infatti che il nostro compito era (ed è ancora) di supportare in vario modo i comuni colpiti dal terremoto. Innanzitutto, dovevamo organizzare le squadre di tecnici comunali il cui compito era di verificare velocemente l’agibilità degli edifici. E’ chiaro che più squadre di tecnici competenti si è in grado di fornire, sistemare, ed organizzare, più presto le persone terremotate possono sperare di rientrare nelle loro abitazioni in tempi rapidi. Mi spiegò che avrei agito sotto la supervisione del nostro responsabile del settore Protezione Civile, e che avrei coordinanto una squadra di ragazzi, per lo più studenti Universitari o dottorandi. Ma Accanto a questo progetto, se ne affiancavano numerosi altri, in particolare quello della polizia municipale: in tal caso il nostro compito era di reperire agenti che volessero prestare servizio di polizia di prossimità nei vari campi, cercando a tal fine di risolvere tutte le innumerevoli pratiche burocratiche (oltre che i tanti problemi politici) in modo da consentire loro di operare nei vari “COM” (come vengono definiti i raggruppamenti di comuni terremotati). Un altro nostro compito era sempre di reperire (tramite il nostro accordo con l’Agenzia dei Segretari), istruire, e coordinare vari Segretari Comunali, venuti in soccorso amministrativo dei comuni terremotati, spesso piccolissimi, e ora sovrastati da una mole di pratiche imprevedibile ed imprevisto. E poi dovevamo rispondere alle centinaia di quesiti che ci venivano posti ogni giorno dai comuni. Mentre mi chiedevo come mai questo lavoro non avremmo potuto farlo da Roma, comodamente seduti in ufficio e senza l’incubo di trovarsi in mezzo ad un nuovo e più devastante terremoto (voce che tutt’ora circola all’Aquila), mi girai intorno e mi rensi conto che li dentro c’era un bel pezzo delle rappresentanze dello Stato e della società civile: dal comune dell’Aquila (il cui sindaco, sconvolto “sedeva” stabilmente di fronte a me), alla provincia (alle mie spalle) , alla protezione civile, ala regione, all’esercito, che si distinguevano per i maxi schermi disposti dietro le loro spalle su cui ogni 1 o 2 ore veniva annunciata una riunione di “breafing”. Capii che il motivo per cui eravamo tutti li, probabilmente era soprattutto perché stando raggruppati in un’unica sede i tempi di comunicazione divenivano più rapidi e, in casi come questi, anche qualche minuto può essere fondamentale. E poi c’erano gli innumerevoli tavoli quotidiani di coordinamento, per affrontare insieme emergenze o problematiche nuove, imprevedibili o sottovalutate fino a poco prima.. Stare a Roma, quindi, sarebbe stato davvero poco efficiente, almeno in questa fase. E’ letteralmente una corsa contro il tempo: forse è solo stando li che si capisce veramente cosa intendo. Voltai lo sguardo e vidi altri maxi schermi, che mostravano i dati sulle ultime scosse, Dopo un po’ vidi arrivare il presidente dell’Anci regionale locale: un uomo distinto e sempre cordiale che però adesso appariva incredibilmente provato dal terremoto e dalla permanenza in tenda. Era abituato, mi raccontò subito, ad avere oltre venti paia di scarpe – un dettaglio apparentemente banale, forse io ne ho ancora di più, pensai – ma mi spiegò che ora ne aveva solo due, e aveva imparato ad apprezzare il fatto di potersele cambiare, a differenza di altri. Disse che prima faceva la doccia tutti i giorni, senza rendersi conto della fortuna che aveva: peccato che si debba imparare dalle tragedie, sospirai con un velo di tristezza. Di tanto in tanto, quando poteva si recava sotto la vecchia sede dell’ANCI Abruzzo oramai malconcia e, non si sa come, dopo un po’ ritornava al DI.COMA.C ,trionfante, con un carico di cancelleria utile per la nostra attività.

Mi misi subito al lavoro, indossai la maglia ANCI –Protezione Civile, e mi resi conto che tempo di apprendere, proprio non ne avevo. Ero già stato catapultato nell’emergenza: i telefoni squillavano, i ragazzi tirocinanti mi facevano domande a cui non sapevo rispondere, il resposabile mi dava mansioni dando tante cose per scontate. Da Roma mi arrivavano richieste dai colleghi sull’entità dei danni per cercare probabilmente di recuperare fondi extra, e mille altre cose. Tutte insieme, tutte subito. Sembrerà strano ma in questo caso, più che la attuale esperienza lavorativa, almeno a livello di stress mi è tornata utile quella dei campi scuola con i ragazzi dell’ACR. Anche se le motivazioni sono diverse, anche in quei casi non ho mai il tempo di fermarmi, di riflettere, di riposarmi. Anche lì capitano quaranta cose tutte insieme e devi risolverle senza avere il tempo pensare. E’ in quelle occasioni che ho imparato che la vera emergenza dura un istante e va risolta in quel momento, non in qualche ora.

“Le cose belle che ci accadono nella vita non ci lasciano mai soli, ci tengono per mano, e ci aiutano a risolvere le situazioni brutte” , ricordai questa frase che spesso dico ai ragazzi dell’ACR: fino ad allora però devo ammetterlo, non mi ero reso conto dell’effettivo significato pratico (aimè). Una esperienza in un caposcuola con degli adolescenti, può ritornarmi utile ad essere più efficiente in un disastro come questo… incredibile! Mi venne da sorridere.

Gli orari di lavoro erano massacranti, ma devo dire la verità, l’adrenalina che viene su quando sei in una situazione di stress ma sai che stai facendo bene è tanta, e ti consente di andare avanti. E poi con i ragazzi dell’Università si era subito creato un clima eccezionale: ci vogliono poche ora in queste situazioni per diventare amici, e devo ringraziare davvero di aver potuto lavorare con delle persone eccezionali come loro. Come Federica, Alessio, Francesco e Giuseppe. Tra i momenti che non scorderò mai, senza dubbio, c’è stata la visita del Papa. L’enorme sala brulicava di Vescovi, Cardinali e Prelati, forse addirittura… futuri Papi: approfittai di quel momento per cercare un “contatto” utile per Don Simone, il mio parroco, che da parecchio cercava di mettersi in contatto con il suo amico Arcivescovo dell’Aquila per poter iniziare al meglio e prontamente un gemellaggio. Non mi fu molto difficile, recuperare un numero di cellulare che, se non fossi stato li sul posto, non avrei mai ottenuto. Molto impegnativo invece fu raggiungere il piazzale dove Benedetto XVI avrebbe parlato: la nostra sala era esattamente alle spalle del Palco, ma per ragioni di sicurezza, io e Federica dovemmo fare letteralmente il giro di tutta l’enorme caserma. Provai a raggiungere telefonicamente la cugina di Rossella, Annalisa, anche lei di Scauri, che in quel momento probabilmente si trovava in piazza d’Armi come volontaria per la Willclown…Cellulare spento! sarà più incasinata di me – pensai – peccato, speravo di incontrarla e condividere con lei le nostre esperienze, molto diverse senz’altro, ma per volte alla stessa causa.

La gente nel piazzale in attesa del Pontefice era tanta, anche se la gran parte delle persone Lo aveva già accolto nei luoghi devastati. Ma, forse per via della tragedia, non c’era il solito entusiasmo. Il Papa passò vicinissimo a me e Federica. Affianco a noi, una bimba di nove mesi, veniva presa in braccio dal Papa: i genitori erano troppo stanchi e demotivati per palesare l’entusiasmo che gli leggevo negli occhi. Al contrario dei raggianti fotografi. Tornai dopo qualche decina di minuti alla mia postazione, c’era troppo da fare.

Non scorderò mai tutte quelle persone comuni che venivano ai nostri banchi con le richieste più disparate, che, anche se non era il nostro compito, cercavamo di risolvere, come quella signora che voleva traslocare ad Avezzano, stanca di alloggiare nella scomoda tenda con i suoi tre figli, ma non sapeva proprio come fare. Le avevano addirittura raccontato che traslocare era vietato dalla legge, in casi di emergenza nazionale. E ricorderò sempre la scossa di terremoto sussultoria, l’unica che ho avvertito, forte, durante la riunione con il coordinatore della Funzione enti Locali, rimasto impassibile – come i militari nei films Americani – mentre molti gridavano e qualcuno si metteva addirittura sotto i banchi. Solo che la sua non era una finzione come in quei film, era effettivamente, abituato a sentire scosse ed era istruito a restare calmo. Personalmente, essendo la stata la mia prima esperienza di terremoto, mi spaventarono più le grida che i banchi che avevano tremato.

Ho tremila altri ricordi, per questi pochi giorni ma intensi, in cui avevo pensato di andare in giro per le tendopoli, e invece mi sono ritrovato in un quartier generale, in cui avevo pensato (o temuto) di fare l’eroe, e invece mi sono ritrovato a fare la formichina operosa, proprio come le mille che avevo scrutato dall’alto appena mi ero recato li. Non posso davvero raccontarveli tutti, i miei ricordi: non potrei però concludere senza dire che il nostro team, ANCI e volontari della facoltà della Protezione Civile a noi affidati, stava e sta lavorando benissimo.

Decine di squadre di tecnici stavano e stanno lavorando instancabilmente; molti vigili stanno andando, tenda per tenda, a rassicurare e risolvere i problemi delle persone, i segretari vanno in soccorso delle amministrazioni sconvolte. Per non parlare dei tutta l’attività politica volta a far si che dalle parole (spesso aimè insensate, inutili ed inefficaci) di decreti e provvedimenti scritti male e di corsa, esca fuori qualcosa di utile e di concreto, che supporti veramente ci comuni colpiti, e quindi la gente.

Una cosa è certa…ci tornerò. Ci tornerò prestissimo.

Alfonso Artone

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